storia

by rafbis

Ovidio

Oggi è una delle verdure più apprezzate in Italia e nel mondo, ma la rucola ha dovuto subire secoli di angherie ingiustificate da parte dei nostri avi. Il motivo principale del pregiudizio verso “l’eruca vesicaria”, questo il nome scientifico, è lo stesso che l’ha fatta sopravvivere fino ai giorni nostri: è ritenuta “eccessivamente afrodisiaca”. Per questa ragione Ovidio la chiamava “eruca salax”
C’è stato però un periodo in cui la sua coltivazione è stata perfino vietata. Questa sua caratteristica è nota praticamente da sempre: autori latini ne parlano e c’è perfino un verso del Talmud, uno dei testi sacri dell’ebraismo, che la cita con sospetto. Vediamo un po’ la storia della rucola e i perché di tanta diffidenza. Ricordiamo però che il “cibo afrodisiaco” non esiste e che è tutta una suggestione data dalla nostra cultura.
Al Sud nel passato ad una donna si sarebbe vietato di assaggiare la rucola “perché è una cosa da malafimmine”. Ma da dove viene questa paura? In realtà viene da ritualità antichissime, quindi per molti delle generazioni passate è semplicemente normale diffidare di questa erba.
La rucola è originaria del Mediterraneo e dell’Asia occidentale, ma oggi è coltivata in tutto il mondo perché basta un terreno con una base sabbiosa per farla crescere piuttosto facilmente. Per tanti anni è stata un’erba infestante, spontanea e in molte zone è ancora così quindi non ha bisogno di molte cure.
I primi accenni scritti alla rucola in ambito “scientifico” li ritroviamo già in Dioscoride Pedanio, un medico e botanico greco ed è lui per primo che teorizza il “risveglio di Venere” per chi si ciba con questa verdura. Dello stesso avviso anche Lucio Columella, uno scrittore di epoca romana, che invita le donne a mettere di nascosto della rucola nella zuppa da servire per “risvegliare i mariti pigri”. Publio Ovidio la definisce addirittura “erba lussuriosa” e durante il Rinascimento un famosissimo erborista, Mattia de Lobel, la prescrive come “viagra”. Sempre questo studioso parla anche di una fuga di massa dai monasteri dopo che i monaci scoprono come fare un liquore alla rucola. Questa notizia in particolare non trova riscontro, ma ci dice molto sulla stessa fama dell’erba.
Tutto questo è in realtà preceduto da uno dei libri più importanti di tutti i tempi: il Talmud. Si tratta di un vasto documento che coinvolge un gran numero di temi e materie, è uno dei testi sacri dell’ebraismo e coinvolge tutti i campi della vita ebraica. La rucola è citata non come alimento, ma come metafora. In una sorta di parabola il Talmud racconta una storia di un misterioso imperatore, Antonino, a colloquio con Yehuda HaNasi, considerato dalla tradizione il Maestro per eccellenza dell’ebraismo. Stando a quanto scritto da Morasha, la figlia dell’imperatore ha rapporti promiscui. Per capire il da farsi, Antonino comincia una serie di “conversazioni” con il rabbino fatte solo di metafore: gli invia una pianta di rucola come simbolo di libertinaggio. La risposta del rabbino è dura: gli manda il coriandolo perché la ragazza sarebbe stata da condannare alla pena di morte, ma il papà risponde con dei porri, perché il parlamento lo avrebbe “tagliato” con una sentenza così cruda, allora Yehuda HaNasi risponde con una lattuga, per chiedergli di avere pietà della ragazza. Questo strambo dialogo ci parla della simbologia dei vegetali nella cultura pre-cristiana: la lattuga per sopire la rabbia, il porro edibile solo in una parte e che quindi “va tagliato”, il coriandolo per il disgusto e la rucola, associata a una certa libertà femminile.
Un pregiudizio antichissimo, dunque, che arriva perfino a intaccare delle leggi. Durante gli ultimi scampoli del governo borbonico nel Mezzogiorno, in tutte le province arriva un provvedimento molto curioso: divieto assoluto di vendita e coltivazione di rucola con pene più severe per i monasteri francescani e domenicani (principali coltivatori del prodotto). L’emendamento è molto difficile da far rispettare: la rucola è un’erba spontanea, quando innestata cresce anche contro la volontà dei contadini.

I Borbone però non ne vogliono sapere nulla: da Napoli in giù c’è troppa promiscuità e la causa è proprio la rucola, va distrutta. A dispetto dei regnanti questa nuova regola ha vita molto breve anche perché la rucola è coltivata soprattutto nei monasteri e molti di questi si trovano in luoghi di provincia, difficili da controllare in maniera capillare. Alcuni terreni lasciati senza cura proprio dai frati sono saccheggiati dalla popolazione locale che, per gratitudine verso il “sacrificio” dei prelati, lasciano loro delle cose da mangiare all’esterno delle porte. Una sorta di baratto carbonaro che porta la rucola fino ai giorni nostri, nonostante la reticenza di diversi nonni ancora oggi.